Francesco Martone (*)
Relazione per il convegno “Le
armi italiane nel mondo, relazioni pericolose o rispetto della legge?” a cura
di Rete Disarmo, Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Sbilanciamoci,
Roma, 13 luglio 2016 [1]
Si può parlare di
“impatto” del commercio di armi sulla politica estera o piuttosto esiste una
relazione diretta, un intreccio tra commercio di armi e politica estera? E se
si, come si alimenta, quali ne sono le caratteristiche e quali le possibili vie
d’uscita?
La risposta a queste
domande è necessaria per tentare un’analisi politica della questione,
che vada a corroborare il lavoro certosino di documentazione, analisi, ricerca
che da anni i movimenti pacifisti svolgono in Italia. Ed allo stesso tempo
tenti di rifuggire scivolamenti verso
posizioni etico-moraliste di demonizzazione del sistema difesa o del concetto
stesso di sicurezza, che invece va ripreso, decostruito e rielaborato da un
punto di vista pacifista e nonviolento. [2]
In questo contesto, il
commercio e la produzione di armi è indubbiamente uno dei corni della
questione. Allora, se il commercio di armi è tema “politico” va affrontato dal
punto di vista politico. E per far ciò si deve tentare un’analisi “politica” della questione a
partire appunto dalla relazione tra armi epolitica estera. Una
relazione, come si vedrà, non univoca. Non si può infatti parlare di un
“impatto” del commercio di armi sulla politica estera, piuttosto si dovrà
concludere che il commercio di armi fa parte, è parte della politica estera.
Per meglio
argomentare il punto si dovrà anzitutto partire da un dato di fatto. La
politica estera come concetto oggi ha un carattere multidimensionale, riguarda
non solo relazioni tra paesi, tramite alleanze, o la cessione di sovranità ad
ambiti multilaterali , ma anche ed in misura crescente le relazioni
commerciali, industriali, la commistione tra interessi di impresa, economici, strategici- geopolitici.
Questo è il primo
elemento da tenere a mente se si vuole cercare di abbozzare un’analisi delle
relazioni tra commercio di armi e politica estera. In realtà non esiste più un
concetto a sé stante di politica estera “virtuosa” visto che i livelli si
intrecciano sempre più al punto da renderli perfettamente allineati o
intercambiabili.
A ciò va aggiunto che
nella genesi della politica estera, da quella tradizionalmente improntata sulla
realpolitik, a quella di potenza, a quella “etica” dell’ingerenza umanitaria
(ormai fallita dopo il caso Libia e l’inazione della comunità internazionale
verso la Siria almeno nella prima fase della rivoluzione e del conflitto) e
dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, si è andata ormai
affermando una visione di politica estera che “securitizza”
ogni suo aspetto, dalla cooperazione allo sviluppo, alle relazioni
diplomatiche, a quelle commerciali.
Questo punto appare
ormai imprescindibile in ogni analisi relativa alla politica estera visto che
ne è l’elemento centrale, e non solo per una scelta politica di abdicazione
alle ragioni dei diritti e della diplomazia. C’è poi un elemento che richiama
quella che Seymour Melman – a suo tempo definiva la permanent
war economy [3],
o più semplicemente l’esistenza di un apparato
industrial-militare che determina le relazioni e i nessi causa effetto tra
interessi del settore difesa e la definizione ed implementazione della politica
estera di un paese. Vale pertanto la
pena di osservare più da vicino come si esplicitano le relazioni tra “sistema
armi” e politica estera in Italia ed Europa.
Nel nostro paese
questo intreccio si evidenzia anzitutto nella pratica mai abbandonata o
effettivamente regolamentata delle “revolving
doors”, o “Porte girevoli”, quelle che permettono le relazioni tra apparato
della difesa, imprese e politica. Una questione apparsa in tutta la sua
evidenza nel caso dell’Ambasciatore Castellaneta ai tempi del governo
Berlusconi, quando lo stesso già
consigliere diplomatico di Berlusconi a Palazzo Chigi e membro del “Board” di
Finmeccanica (oggi ribattezzata “Leonardo”) poi mandato a Washington per
chiudere il mega affare – mai concluso – per gli elicotteri Agusta-Westland per
i Marines. Una questione rimasta irrisolta se pensiamo al caso più recente
relativo alla vicenda di Lapo che dall’oggi al domani lascia il suo incarico di
viceministro degli esteri con delega alla cooperazione ed al Medio Oriente
per passare alla poltrona di
vicepresidente dell’ENI.
Va inoltre
sottolineato il ruolo sempre crescente del Ministero della Difesa e
dell’Industria nella definizione delle linee strategiche del paese e della
proiezione del paese vero l’esterno ed allo stesso tempo depositario ed attore
di primo piano nella “diplomazia” industrial-militare. A ciò va aggiunta la
proliferazione di accordi bilaterali di
cooperazione tecnico-industriale nel settore militare, che hanno come “volet” anche la
cooperazione nel settore degli armamenti e dell’industria. Questi accordi bilaterali spesso operano come
“cavallo di Troia” per l’esportazione e la cooperazione nel settore della
difesa e degli armamenti, per non tralasciare quella prassi ormai consolidata
di cessione di armamenti o componenti di sistemi d’arma definita e formalizzata
nei decreti missioni.
Sullo sfondo Il progressivo
indebolimento delle normative ex legge 185/90 in termini di trasparenza, “accountability”, e monitoraggio
destinazione finale dei sistemi d’arma. Che è, assieme al decreto missioni,
l’unico strumento esistente di monitoraggio parlamentare sull’invio di armi
all’estero. Va sottolineato al riguardo che il processo di indebolimento è
partito con il pretesto dell’adattamento della 185/90 all’accordo di
Farnborough per la creazione di industria europea della difesa. In questo caso
è evidente che le scelte di politica estera incidono “negativamente” in termini
di regolamentazione del commercio di armi.
Per quanto riguarda
il livello europeo, è altrettanto evidente
che la strategia di sicurezza europea ed il portato del trattato di Lisbona
sulla politica europea di sicurezza e difesa siano state determinate dalla
forte pressione delle lobby delle industrie degli armamenti. [4]Già
il rapporto “Lobbying warfare: the arms
industry role in building a military Europe” del Corporate Europe
Observatory del settembre 2011 [5] dimostra come le lobby dell’industria della
difesa europea non solo determinano le linee di politica industriale ma anche
le strategie di politica estera e di difesa. Per non parlare del recentissimo rapporto del
TNI “Border Wars” che documenta come l’industria europea della difesa si sta
riadattando alla domanda di sistemi di sorveglianza e monitoraggio delle
frontiere. [6]
Da tutto ciò consegue
che per meglio comprendere le relazioni
che intercorrono tra politica estera e industria degli armamenti sarà
necessario fare un’operazione di trasparenza e chiarezza per evidenziare i
nessi causali, certo conosciuti ma non ancora messi a sistema. Nessi causali
che riguardano sia il modo con il quale la politica estera favorisce o agevola
gli interessi dell’industria della difesa. Sia come questa prima sia definita
dalla seconda.
E per fare ciò si
deve sempre partire dalla traccia del denaro: dove vanno le sponsorizzazioni? In quali Board
siedono i rappresentanti dell’industria degli armamenti? Quale il ruolo del
settore della difesa nel coltivare relazioni internazionali tra i paesi? Le risposte a tali domande dimostreranno che di
fatto esiste un sistema parallelo di politica estera praticato dalla difesa, un
sistema intrecciato tra politica-diplomazia-impresa-forze
armate-ricerca-think tank-media. Insomma la feluca e la spada si sposano con la
moneta e la penna.
Poi ci si dovrà
interrogare su come l’invio/spedizione di armi o la sua negazione attraverso
gli embargo sia di per sé strumento di politica estera. Ossia su come il
commercio o trasferimento di armi o la
sua interdizione siano scelte consapevoli di politica estera. Ci sono alcuni casi interessanti anche recenti
di studio che possono servire a meglio comprendere come spesso
l’intreccio tra commercio di armi o meglio invio di armi, non necessariamente a
scopi commerciali, incida sulla politica estera e sulla credibilità del paese.
È questo il caso dello stock di armi
sequestrate anni fa ad un trafficante di
armi russo nel 1994 e poi stoccate a la Maddalena, un arsenale contenuto in 200
container, dal quale venivano prelevate armi e munizioni come fosse un
bancomat. Prima per sostenere alcune milizie filooccidentali libiche, con il
risultato che poi queste armi sono finite in mano alle milizie filo-gheddafiane. E più di recente a
sostegno dei Peshmerga kurdi in Iraq una decisione presa di fretta e furia dal
governo, informando le Camere convocate a fine agosto di due anni fa, mentre
nelle stesse ore Matteo Renzi era a Baghdad per ottenere l’avallo necessario da parte del governo irakeno. [7]
Una tale scelta opportunistica se da una parte può aver pregiudicato un ruolo centrale dell’Italia
in quanto mediatore di conflitto in Irak (compito ancor più urgente quando
all’indomani della sconfitta militare di DAESH ci sarà da ricostruire un processo
di riconciliazione interreligiosa ed interetnica nel paese) dall’altra avrebbe finito per per servire agli
interessi di politica estera e commerciale italiana in particolare per quanto
riguarda l’accesso alle risorse petrolifere del Kurdistan Irakeno.
Lo stesso dicasi per
l’Egitto. L’Italia continua a vendere armi all’Egitto, e ad inviare bombe
all’Arabia Saudita impegnata in una guerra sanguinosa e brutale contro le
milizie DAESH in Yemen con enormi costi in termini di vittime civili. Il punto in questo caso è che inviare armi
alla coalizione anti-DAESH è
compatibile con la politica estera italiana, ma ne evidenzia le gravissime contraddizioni e la
scala invertita di priorità. L’Italia si
fa paladina dei diritti umani presso le Nazioni Unite e poi cede di fronte ad
altre priorità strategiche: sostiene Egitto [8]
ed serie di partner regionali complici o responsabili di crimini di guerra come
l’Arabia Saudita o di violazioni dei diritti umani come Egitto o Bahrein, con
il pretesto del sostegno alla lotta al terrorismo. A suo tempo il Consiglio Europeo dei Ministri
aveva dato indicazioni ai paesi membri di sospendere le licenze di esportazione
di armamenti verso l’Egitto in seguito alle gravi violazioni dei diritti umani, ma di recente la UE ha approvato l’invio di
sistemi d’arma ed altro in sostegno all’Egitto nella sua lotta contro il
“terrorismo”.
Risulta così evidente
come la politica estera del paese sia determinata da interessi geopolitici e
strategici chiari, è frutto di scelte chiare di “securitizzazione”, che
comunque risultano assai contraddittorie.
Portando il discorso
alle estreme conseguenze si potrebbe affermare che l’invio di armi in paesi in
conflitto equivale a partecipare (seppur indirettamente) a quella guerra. Lo
spiega chiaramente un’eccellente pezzo di inchiesta uscito ieri l’altro sul New
Inquirer “Recoil operation” sul
commercio legale ed illegale di armi leggere negli States. “Domestic distaste for “boots on the ground”
dovetails with domestic commitments to arms-related manufacturing jobs making
it even more attractive to arm foreign allies instead of doing the fighting
ourselves”. [9]
Né più e né meno
quello che accade anche nel nostro paese: ad un aumento delle esportazioni di
armi in zone di conflitto da una parte (quindi una sorta di guerra per procura,
all’interno della coalizione contro il DAESH ad esempio, senza però l’invio di
“scarponi sul terreno” visti gli alti rischi ed i possibili costi “politici” di
un’eventuale operazione) corrisponde l’aumento
delle collaborazioni industriali con paesi che offrono maggiori opportunità di
affari, dall’Asia, agli Emirati, all’Africa, all’America Latina.
A questo punto, forse
si deve iniziare a dire chiaramente che inviare armi in zone di conflitto è una
scelta politica di guerra, seppur per procura. E implica il sostegno alla
guerra come modalità per risolvere controversie internazionali, e per esteso
violerebbe l’articolo 11 della Costituzione.
C’è poi un’altra
questione politica riguardo all’embargo di invio di armi: in linea di massima
un paese non dovrebbe inviare armi in aree di conflitto, cercando quindi di
mantenere una certa “terzietà” o neutralità che gli permetterebbe poi di
svolgere un ruolo di mediatore e arbitro per una soluzione diplomatica e
politica. Spesso la presa di posizione
attraverso l’invio di armi ad una delle parti in conflitto è spiegata come
necessità di equilibrare le forze in campo o di alterare l’equilibrio per
creare le condizioni per una soluzione negoziata. [10]
È però tutto da dimostrare che l’ uso
della leva dell’invio di armi o l’embargo selettivo abbiano contribuito alla
pacificazione di lungo periodo nelle aree di conflitto, o invece in molti casi abbiano contribuito a
“minare” le fondamenta di una pace duratura.
Rebus sic stantibus, quali possono essere le possibili soluzioni?
Ne esiste senz’altro una
immediata, ovvero chiedere trasparenza e controllo parlamentare, richieste legittime
che riguardano anche la ratifica ed applicazione in Italia dell’ATT , la cui
seconda conferenza delle parti si riunirà a Ginevra ad agosto 2016. Si potrebbe
stabilire ad esempio una correlazione
tra attuazione dell’ATT e 185/90 o regimi di rendicontazione e trasparenza.
Anche se l’ATT ha anche delle clausole che prevederebbero la proibizione
dell’invio di armi in taluni paesi. Condizionalità che invece è andata persa o
fortemente indebolita nelle successive revisioni della 185/90.
Si potrebbe quindi iniziare verificando la compatibilità della
185/90 con gli obblighi di trasparenza e reporting derivanti dalla ratifica
dell’ATT, quali la “national control list”,
l’annual report al Segretariato del
trattato. [11] Il
sistema di rendicontazione dell’ATT può essere usato per rinforzare il sistema di
rendicontazione della 185/90 nelle sue versioni riviste e corrette? Eppoi le
condizionalità della 185/90 riguardanti le “gravi” violazioni dei diritti umani
possono contribuire a rinforzare quelle dell’ATT almeno per quanto concerne
l’equivalenza dei regimi di controllo e trasparenza? Ciò però potrà essere
possibile solo se accanto all’attuazione
delle misure necessarie in seguito alla ratifica dell’ATT si operi per il ripristino delle normative originali della
185/90 – in particolare la trasparenza delle transazioni bancarie e vincoli relativi all’esportazione in paesi
dove vengono violati i diritti umani e si estenda l’obbligo di rendicontazione
e trasparenza anche ai trasferimenti di armi o cooperazione nel settore della
produzione di armi nel quadro degli accordi bilaterali nel settore della
difesa, ad esempio chiedendo una relazione annuale al Parlamento.
Tale approccio
improntato sulla trasparenza e l’”accountability”
, seppur necessario ed urgente però non scalfisce il nocciolo “politico” del
problema, cerca di costruire o ricostruire l’”hardware” ma non cambia il “software”:
ossia ciò che viene prodotto dall’intreccio tra politica estera, di difesa e
industriale. Sarebbe quindi opportuno
iniziare a ragionare su altre ipotesi di lavoro che ad esempio documentino ed
affrontino il tema delle fondazioni, delle think
tank e della sponsorizzazione delle imprese degli armamenti e quello delle
“revolving doors”. E che semmai oltre
a lavorare sulla “domanda” di armi , si riprenda a lavorare anche
sull’”offerta”, alla conversione dell’industria militare. Più
in generale, essendo il tema del commercio di armi, come si è cercato di
argomentare, un tema “politico” che risponde a visioni di politica estera
“securitaria” o di realpolitik, sarà necessario uno sforzo più ampio a livello
di elaborazione e ricerca culturale e politica. Ossia, come noi , movimenti
pacifisti e pacifisti intendiamo la politica estera? Basta dire che vogliamo la
pace e non la guerra? E che siamo contro il commercio di armi? O siamo per la
sua trasparenza? Il tema centrale riguarda il paradigma e lo sforzo di cercare
di elaborare un proprio paradigma di politica internazionale, magari fondato
sul principio e la pratica della neutralità attiva. Un
Ponte Per a suo tempo ha proposto ad un documento sulla Libia proprio
improntato sul tema della neutralità attiva come possibile soluzione alla crisi
libica. Un ruolo terzo e equidistante per l’Italia che avrebbe avuto cos’ la
possibilità di mediare, di essere arbitro tra le parti, laddove uno dei punti è
quello dell’embargo all’invio di armi a tutte le parti in conflitto. Sul tema e la pratica della neutralità attiva
ci sarebbe molto da ricercare e elaborare insieme. Per questa ragione assieme a
Transform! Italia, Un Ponte Per propone un primo appuntamento di
approfondimento a Roma a settembre, dove anche la questione del commercio di
armi verrà affrontata nel quadro più ampio. [12]
(*) membro del
Comitato Nazionale di Un Ponte Per…
francesco.martone@unponteper.it
[1] http://www.disarmo.org/rete/a/43297.html
[2] importante al riguardo il recente dossier “Sicurezza” di Mosaico di
Pace http://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3722.html
[4] Per tornare a casa nostra, si veda ad esempio anche in Italia la
relazione stretta tra Finmeccanica e think tank quali lo IAI o l’ISPI , o Aspen nei cui Board siedono rappresentanti di Finmeccanica, o viceversa exviceministri degli esteri e
autorevoli teste pensanti di Aspen Institute che vengono mandati nel board di
Leonardo-Finmeccanica.
[8] triangolazione per la creazione di un hub per il gas naturale con
Israele e Libia, interessi di controllo dei flussi migratori, e ruolo nel dopo-
conflitto in Libia – in questo caso schierandosi con l’alleato chiave di
Heftar, che secondo informazioni recentissime starebbe lavorando ad un accordo
con le milizie filo-gheddafiane per un patto anti-ISIS etc.
[9] http://thenewinquiry.com/essays/recoil-operation/
[10] si veda al riguardo: http://www.unponteper.it/neutralita-attiva-lopzione-italiana-che-auspichiamo-per-la-libia/
[11] Va però sottolineato che l’ATT no prevede proibizione di invio di armi
sulla base del rispetto o meno dei diritti umani, ma solo per embargo,
genocidio o crimini contro l’umanità.
[12] https://neutralitaattiva.wordpress.com/
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