lunedì 4 luglio 2016

L'obsolescenza programmata delle parole

Come spesso mi accade a prima mattina, è con il risveglio che tra sogni mezzi fatti e mezzi ancora da fare, sinapsi che si rincorrono e giocano al nascondino, memorie del giorno precedente e goffi tentativi di pianificare quello che viene, un sorso lungo di caffé nero bollente (rigorosamente pestato nella Bodum d'ordinanza), lettura di notizie online, insomma è in quella fase liminale tra sonno e risveglio che nella testa mi si ricompongono eventi, parole, informazioni, dati, che letti da sé appaiono sconnessi e poi come per incanto si ricompongono a formare un'intuizione, un pensiero.

Ieri ho ascoltato con attenzione le parole di alcuni relatori intervenuti all'importante convegno sui 40 anni della Carta di Algeri (oggi la seconda parte) si parlava di popoli, diritti dei popoli, di migranti, rifugiati, Si parlava e non solo, le parole erano la traduzione verbale di storie profonde di impegno, dalla ricerca e l'analisi giudirico-legale, al sostegno concreto "sul campo". Parole dense di corpo, di storia e di storie. Non quelle parole che ormai accompagnano retoricamente l'ennesimo naufragio, crimine contro l'umanità. Ripensavo a quelle parole, all'amara constatazione che i diritti dei migranti e dei rifugiati non trovano cittadinanza nelle agende della politica istituzionale, ripercorro le immagini di Via Cupa, a Roma, delle centinaia di esseri umani accatastati in una stradina a ridosso del Verano e della Stazione Tiburtina. Alla richiesta pressante ed urgente di viveri e medicinali dei volontari dl Baobab Experience. Concretezza che annega nel mare delle parole, quelle di circostanza o quelle rituali, quando si parla di migranti, di mobilità umana. Al fiume di parole spese sull'opera di Christo, la passerella che dovrebbe simboleggiare la capacità di camminare sulle acque, la mobilità umana.

Le parole, disse credo Walter Benjamin, ad un certo punto perdono di significato, mancano vengono meno. Ecco, forse oggi questo è il punto: le parole non solo non bastano, ma sono cadute in obsolescenza. Quelle parole che sanno di "paternalismo", di spocchiosa supponenza, di miserevole compassione, e quelle che a fiumi cercano di decodificare il fenomeno, tradurlo in "issue" più o meno utile alla circostanza o al rating del consenso. O tema di dibattito, ricerca, analisi, produzione culturale o visuale. Insomma un argomento di elaborazione e conversazione, nulla più, e per di più ormai in "overkill" , stato di utilizzo eccessivo al punto da renderlo inutile, a produrre assuefazione.
 Sul tema dei desaparecidos in mare, delle tragedie di chi si incammina su un percorso migratorio, per desiderio o necessità, forse troppo si è parlato, forse quelle parole utilizzate o per mettere a bada i nostri sensi di colpa o per prefigurare interventi salvifici, non bastavano allora. Ed oggi sono obsolete.

Non "Basta la parola" per parafrasare un refrain di un vecchio spot di Carosello - si perché a prima mattina riaffiorano chissà da dove anche memorie antiche, si sa con l'avanzare degli anni la memoria di lungo periodo prende il sopravvento. E la memoria di lungo periodo mi ricorda quando adolescente mi trovai , mediaticamente, di fronte alla tragedia dei "boat people" in Asia. Gente che scappava dalla guerra. Ad un certo punto a casa si pensò pure di adottarne uno, Non se ne fece nulla, però quel giorno, decisi di distruggere tutti i miei soldatini di plastica, e le mie armi giocattolo, le riviste di aerei - a quell'età ti viene la passione per gli aeroplani e per le armi, ma dopo le immagini del Vietnam, Da Nang, Saigon, le corrispondenze via satellite in bianco e nero. della guerra del Kippur iniziai a dare a quei giocattoli un altro significato. "Non posso giocare alla guerra assieme al bimbo vietnamita, quello scappa dalla guerra. Per lui mica è un gioco". Dell'adozione non se ne fece nulla, ma allora iniziò la mia conversione al pacifismo ed all'antimilitarismo. Non bastano più le parole

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