per QCODE magazine, settembre 2016
E’ un giorno d’agosto di pioggia intensa,
battente. A Montreal si teneva il Forum Sociale Mondiale, il primo mai fatto in
un paese del cosiddetto “Nord” del mondo, come se una categoria geografica
ormai consunta possa esaurire la portata di dinamiche e i meccanismi di
inclusione, ed esclusione, di sfruttamento e invasione che caratterizzano ormai
l’assalto ai “commons” ed ai diritti
dei popoli in ogni parte del mondo. Nella città francofona i
movimenti studenteschi fecero la
storia, quando - sulla scia di “Occupy”n e dei
movimenti degli Indignados e delle Primavere Arabe - lanciarono la loro
di primavera dell’”acero”, la “Maple Spring” che portò decine di migliaia di
persone in piazza. Una rivolta nel nord
algido del Canada, paese che oggi ci vorrebbe agganciati attraverso un accordo
commerciale quale il CETA, e che proprio a Montreal vede il fulcro delle
attività ed il cervello pensante delle strategie delle principali
multinazionali del settore petrolifero
mondiale. Un’enorme auditorium ed un parco a tema ambientalista
sponsorizzato dalla Rio Tinto Zinc ce lo ricordano. Un Sud di decine e decine
di “homeless”, distrutti dall’alcol, che vengono dalla gelida Nunavut, il paese
degli eschimesi, gli Inuit. E poi loro, i Mohawk,
discendenti di un popolo guerriero,
spesso e volentieri sul piede di guerra per difendere le loro terre.
Ieri da un
progetto di campo da golf, ieri l’altro per proteggere le acque del San
Lorenzo dagli sversamenti tossici delle fogne di Montreal, oggi per
interdire la
strada ad un oleodotto.
A separare Montreal dalla comunità Mohawk di Kahnawake è
un ponte eretto in ricordo del governatore del Quebec, Honoré Mercier. Opera di
ingegneria che suggella la collaborazione tra i Mohawk e i costruttori
canadesi. Un ponte che unisce, ma che può anche separare, quando viene occupato
dalle comunità dell’altra sponda per far valere i propri diritti. Attraversiamo
il Mercier Bridge ed arriviamo dall’altra parte, una lingua di terra percorsa
da un rettilineo lungo il quale si affacciano innumerevoli botteghe, le insegne
fluorescenti di marche improbabili di sigarette. E’ la produzione di sigarette
una delle principali fonti di entrate
per la comunità, assieme al lavoro di manutenzione del ponte, essendo i Mohawk espertissimi ed abilissimi edili. Si narra che
possano camminare sule travi di acciaio sospese nel vuoto senza soffrire di
vertigini, appollaiati su scheletri di grattacieli che costellano la “skyline”
di Manhattan. La storia di Kahnawake e della comunità “sorella” di Kahnatasake affonda
le radici nel passato coloniale, e si ripropone come segno tangibile di una
lotta millenaria per l’autodeterminazione e la dignità. Una schiera di
villette smontate di sana pianta e
ricostruite al di là della strada che al di qua i canadesi decisero di punto in
bianco di cementificare la sponda del fiume, cacciando via chi da tempo
immemorabile ci viveva e ne viveva. Poi gli edifici delle istituzioni di
governo della comunità, quelle imposte dal governo canadese, fredde, e
squadrate, senza anima, e la longhouse,
di legno, quella che rappresenta la vera anima della comunità. All’interno, le
luci soffuse, una schiera di panche ad est ed una ad ovest, insegne Mohawk, e
stendardi delle nazioni Iroquois, una scritta dedicata a Deganawida, il grande
pacificatore e fondatore della comunità di Kanonsonnionwe, la società perfetta,
senza eguali. Un drappo riporta
la seguente scritta :”Resisteremo in ogni
modo ad ogni aggressione e violazione dei trattati, ed ogni interferenza verso
il libero uso e godimento della nostra terra, ogni usurpazione della nostra
sovranità, invasione o oppressione. Ci impegniamo a far sì che il clamore venga
sentito da una parte all’altra del mondo”.
In piedi al centro, la nostra
“guida”, Kenneth Deer, inizia il suo racconto. Ci spiega che le donne
nella comunità hanno un ruolo di gran rilievo. A prescindere dal fatto che
secondo i nostri parametri, è permesso loro l’’ingresso dall’entrata
posteriore, “ad ovest dove sorge la Luna,
non entrata secondaria” - ci tiene a sottolineare - mentre gli uomini
entrano dall’entrata ad est, dove sorge il sole. La longhouse è divisa a metà, esattamente la stessa parte per le donne
e per gli uomini, che la comunità e divisa in sei clan tre per gli uomini tre per le donne,
quello della tartaruga, quello dell’orso e quello del lupo. “Le donne sono quelle che hanno l’autorità di ogni clan. Nella longhouse
una “tartaruga” non può spostare un’ altra “tartaruga”, ma non importa chi sia
il padre il bambino apparterrà al clan della madre. Tu sei ciò che è tua madre.” E le “madri
dei clan” hanno un potere straordinario, sono loro a decidere - se dovesse
morire uno dei capi dei clan maschili - il suo successore, visto che “sono loro che vedono i bambini crescere e
sanno chi ha le migliori caratteristiche per essere chief. Quindi giocano un
ruolo molto importante. Se il capo non ascolta le persone la clanwoman lo
ammonisce e se continua a non ascoltare lei lo ammonisce ancora e se continua
la donna ha l’autorità per rimuoverlo e rimpiazzarlo”. Nel villaggio esiste
una precisa distribuzione dei compiti, alle donne spettava originariamente la
scelta del logo dove costruire il villaggio, la coltivazione del terreno, il
raccolto. Sono le vere responsabili della terra, mentre agli uomini spettava la
caccia, la ricerca del cibo, i viaggi, la diplomazia, la difesa e la sicurezza.
Ci racconta poi di come vengono prese le
decisioni, il loro sistema deliberativo, essenzialmente diverso da quello
“occidentale”, rappresentato dalle istituzioni elettive imposte a suo tempo dal
governo canadese, e che di fatto quasi nessun “nativo” riconosce come
legittime. Nella longhouse vige il
principio del consenso, come obiettivo e come valore intrinseco nella necessità
e fine di tenere compatta e coesa la comunità. Non si vota, ma si decide
attraverso il dialogo e la negoziazione tra clan se il tema riguarda i clan, se
riguarda la comunità interna, va alla discussione nella “longhouse” dove inizia la discussione tra due clan, finché questi
non raggiungono un accordo, per poi passare la mano al terzo clan che fino ad
allora osservava la discussione. Se non si arriva al consenso, la questione
viene “seppellita”, o i membri della comunità “ci dormiranno sopra” per poi in
caso rimetterlo in discussione. “E’ il popolo che ha il potere, “People have the power” – sorride Ken – spesso siamo stati in conflitto con il
Consiglio eletto, che è espressione del sistema di governo dello stato
canadese, perché alla fine sono le persone nella comunità che decidono. Il
consiglio elettivo ad esempio voleva costruire qua a casa nostra un casinò, noi
siamo contro, e non abbiamo votato nel referendum proposto, semplicemente ci
siamo opposti, e del casinò non se ne parla”.
Le tracce della colonizzazione e della resistenza emergono in ogni
aspetto della vita e delle relazioni con
le autorità “statuali”, dalla delegittimazione dei Consigli elettivi , imposti
dopo la firma di un trattato tra Canada e popoli Iroquois, e attraverso
l’Indian Act, nel tentativo di rimpiazzare con la forza la loro lingua e
cultura e sostituire la forma tradizionale di governo. “Così oggi ci sono due sistemi di governo, il consiglio eletto e
quello tradizionale, e la gente sa dov’è il vero potere. Oggi solo il 25 percento
dei nostri vota il sistema elettivo gli altri fanno riferimento al sistema di
governo tradizionale. Nella comunità nativa più grande del Canada, quella delle
Six Nations, solo il 5 percento vota per il sistema elettivo. Sappiamo
benissimo dov’è il potere”. Ed è un
contropotere che si esprime anche nel sistema giudiziario che tra i Mohawk è
fondato sul risarcimento piuttosto che sulla pena.
Oggi, il nuovo primo ministro Justin Trudeau
ha dichiarato come uno dei primi atti del suo mandato, di voler imprimere una
svolta alla politica di governo rispetto alle “First Nations” canadesi, ed alla
questione dei diritti dei popoli indigeni in generale, invertendo la posizione
che vedeva il Canada tradizionalmente contrario al riconoscimento della
Dichiarazione ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni (UNDRIP). Un’apertura vista
con favore, che però cozza con la determinazione con la quale il governo
intende perseguire la costruzione di “pipeline” e estrarre combustibili
attraverso il fracking. Una di queste condutture, la “Transcanada pipeline”
passerà a nord di Kahnawake, attraverso la terra dei Mohawk di Kahnatasake,
che hanno già espresso la loro netta opposizione. “Anche noi la pipeline non la vogliamo”, spiega Ken, un atto di solidarietà che ricorda quello del
lontano 1990, quando la storia della resistenza Mohawk fece il giro del mondo.
Allora la comunità di Kahnatasake era in rivolta contro il piano di
allargamento di un campo da golf ad Oka, luogo sacro, dove era sepolto il capo
Mohawk Kanawatiron, al secolo Joseph Gabriel, che nel 1911 si mise a capo della
resistenza degli Irochesi cotro la costruzione di u na ferrovia che doveva
attraversare la loro riserva. L’11 luglio 1990 la polizia arrivò ed
attaccò, le donne in prima fila, le barricate ad Oka.
Ken continua a raccontare
“Decidemmo di fare qualcosa e bloccammo a
prima mattina il Mercier Bridge, paralizzando l’intera Montreal. Arrivò una
SWAT team e ci furono tafferugli, ci attaccarono con granate assordanti, i
Mohawk reagirono, un poliziotto fu ucciso”. Con le loro barricate tennero
il ponte per 56 giorni, fin quando su richiesta del governatore del Quebec arrivò
l’esercito. Arrivarono anche osservatori internazionali dalla Svizzera e dalla
Francia. A Ken fu chiesto di fare da negoziatore. “Ci misi un giorno per arrivare a Montreal per incontrare il ministro
per gli affari indiani del Canada. Ricordo di aver fatto una passeggiata, tra i
pini, e le fortificazioni, i guerrieri Mohawk in mimetica, e potevo riconoscere
le loro voci. Erano miei studenti quando
lavoravo in liceo venti anni prima, quindi mi conoscevano tutti. E rimasi così impressionato
dal fatto che persone normalissime fossero pronte a difendere con le armi la
loro terra” Al governo canadese
chiesero come condizione per i negoziati una amnistia, che il governo non
accettò, i negoziati fallirono e Ken fu inviato a Ginevra alle Nazioni Unite per sbloccare la
trattativa. Prese la parola alla cerimonia d’apertura del gruppo di lavoro
delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni a nome della Mohawk Nation, accolto con una standing ovation. Venne
anche in Italia a Bologna e Verona su
invito dei Verdi. Ken continua il suo racconto, che si intreccia con l’epopea
di Daganawida, il grande pacificatore che venne inviato dal Creatore, per
portare la pace tra i Mohawk, guerrieri nati. “Venne e parlòd i pace, di mettere da parte odio e vendetta. Gli Onaida
accettarono e poi arrivò da noi attraversando le cascate del Niagara. Restò con
noi ben 5 anni per insegnarci la pace, poi tornò dagli Onaida e riuscì a far
finire la guerra.” Dovettero comunque riprendere le armi quando i Francesi
, alleandosi con gli Huron, tentarono di annientare la confederazione degli
Iroquois per avere libero accesso alle vie di trasporto delle pellicce. Non
riuscirono nell’intento. Huron e francesi vennero sconfitti ed i primi fuggirono
fino alle frontiere dell’Oklahoma. “ Ci
provarono tante volte a distruggerci, facendo come i conquistadores con gli Aztechi, tagliano le
teste, uccidendo i capi. Ma noi avevamo le nostre donne pronte a sostituire i
capi con altri capi” .
Una comunità senza paura quella dei Mohawk di
Kahnawake. Ogni tanto sul Mercier Bridge spunta una bandiera Mohawk, o arrivano
marce autoconvocate come quella degli studenti della Kahnawake Survival School,
la scuola di sopravvivenza fondata da Ken.
A novembre dello scorso anno, decisero di punto in bianco di alzarsi
dalle loro aule, uscire e marciare per bloccare una delle rampe del ponte per
protestare contro un piano del comune di Montreal per sversare milioni di
galloni di reflui tossici nelle acque del San Lorenzo. Lo stesso fiume che tra
gli anni ’50 e ‘70 venne contaminato dai rifiuti tossici della General Motors,
della Aluminium Company of America e la Reynolds Metal, distruggendo gli stock
di pesca, necessari per la dieta quotidiana dei Mohawk che da allora iniziarono
a dipendere da cibo prodotto industrialmente con conseguente aumento dei casi
di obesità e diabete. Ci salutiamo poco
prima dell’imboccatura del Mercier Bridge sotto la pioggia battente. Kenneth di
l a poco avrebbe iniziato ad insegnare politiche dello sviluppo alla Mc Gee
University, teatro in quei giorni delle iniziative del Forum Sociale Mondiale. Ed aspetta ora la risposta dal Vaticano alla
missiva da lui consegnata in persona a Papa Francesco qualche mese fa a Roma,
nella quale i rappresentanti dei popoli nativi condannano la “dottrina della
scoperta”, che servì da pretesto per la evangelizzazione forzata dei loro
popoli.
Noi torniamo a Montreal, per gli ultimi giorni di Forum Sociale
Mondiale. Di lì a poco centinaia di “indian americans” popoli nativi
nordamericani si sarebbero accampati nei pressi di un cantiere in Nord Dakota assieme ai loro fratelli e sorelle di Standing
Rock. Uniti nella più grande protesta nativa che si ricordi contro un oleodotto
che minaccia le sorgenti di acqua potabile.
Una mobilitazione destinata a fare storia, sostenuta da ogni parte del
paese, da movimenti quali Black Lives Matter, a organizzazioni locali,
ambientaliste e non. Anche in Canada si
assiste ad un risorgimento indigeno. “Idle
no more”, è lo slogan del movimento
che nato in Saskatchewan per bloccare una legge che avrebbe limitato la
sovranità dei popoli nativi si è
allargato a macchia d’olio in tutto il Canada diventano il più grande movimento
indigeno della storia del paese. Storie
perenni di resistenza (non di protesta - ci tengono a dire - ma di protezione
della terra, dell’acqua, dell’aria. “We
are protectors , not protestors”) , di occupazioni, e di rivendicazione di
diritti e sovranità, nei vari “sud” che esistono e resistono nel “nord”
geografico di un pianeta sempre più piccolo e vulnerabile, sempre
più imprigionato nell’era dell’Antropocene.
(lavorando per anni con popoli indigeni, ho
imparato un sacco di cose, tra cui la regola delle sette generazioni, “ogni
volta che fai una cosa pensa a cosa potrebbe accadere alla settima
generazione”. E visto che credo che questa regola possa applicarsi anche alla gratitudine
e ricooscenza, ecco una postilla doverosa. Ho conosciuto Ken forse venti anni
fa a Bruxelles, a casa di una cara persona, allora lavorava per i popoli
indigeni al Parlamento Europeo. Mardoeke mi ha aperto la strada verso quel
mondo. In quel salotto, in una fredda sera d’inverno venni a sapere di Oka e
del lavoro di Ken. Poi l'ho rivisto a Parigi, l’anno scorso, alla COP20 in
occasione delle mobilitazioni per la giustizia climatica. Lo ringazio per
avermi accolto nella sua terra, come ringrazio chi ho incontrato in questi
anni, e che ora resiste – o forse meglio “protegge” la Terra, in Canada come negli Stati Uniti. Ben,
Clayton, Tom, Dallas, Alberto, Rochelle, Wahleah, Andrea, Ken, Kim, Nicole, Crystal e
tanti altri e tante altre).