lunedì 21 marzo 2011

Ed è la guerra

“Come un mostro grande che pesta duro” dice Leon Gieco nella sua splendida Solo le Pido a Dios. Chiede a Dio che la guerra non lo renda indifferente, la guerra un mostro grande che pesta duro, sulla povera innocenza della gente.

Ci sentiamo così tutti, calpestati, nei nostri ideali nelle nostre convinzioni chi si era illuso che questa ipotetica No Fly Zone potesse servire a salvare dei civili, e chi – e mi riconosco in questi – aveva intuito che dietro c’era qualcosa di diverso, di ben più grave. E così ora guardiamo tutti attoniti, l’escalation della macchina della guerra, il mostro grande che scalza con una zampata l’illusione della potenza mite del dialogo, del negoziato.

Se osiamo metterla in dubbio, allora ci viene detto che siamo dalla parte di un pazzo sanguinario, chiusi in una morsa che oggi nel nostro paese assume un aspetto ancor più inquietante. Se parliamo il inguaggio del dialogo ci ridono in faccia da destra a sinistra, ci si chiede di essere seri, in grado di proporre soluzioni plausibili. Sembra come se questa guerra serva a ricostruire il senso di un paese, l’Italia, che ormai ha perso un nomos ed un ethos comune, a 150 anni dalla sua unità. Come se la guerra fornisca un senso ordinatore nel caos e nell’incertezza creati dalla precarietà, dall’incapacità di proiettarsi nel futuro. Ricordo la nausea provata qualche giorno fa cogliendo alcuni istanti di una trasmissione televisiva che ricordava i 150 anni e metteva in scena una apologia della guerra, del povero soldato innamorato, perso nell’orrore delle trincee. Senza che nessuno ci ricordasse che a migliaia vennero fucilati da ottusi generali perché non volevano più uccidere. C’è altro ed è forse lì che si deve lavorare a fondo.

Questa avventura folle che rischia di aprire un vaso di Pandora, è stata costruita ad arte, giocando nel subconscio delle persone, Di chi ama la libertà e la democrazia, e di chi, tutti noi, era rimasto già colpito e perso di fronte alla forza tremenda del terremoto, e dello tsunami. Allora ci siamo sentiti impotenti, di fronte alla nostra piccolezza. E così mentre i nostri occhi inorridivano di fronte alle immagini di distruzione provenienti dal Giappone, mentre si metteva in dubbio la fede nella scienza e nella ragione, scomparsa nel fumo radioattivo di Fukushima, si stava preparando il campo ad un nuovo orrore, costruito a livello mediatico e subconscio. Un orrore al quale però l’uomo una risposta poteva riuscire a darla con la forza bruta, nell’illusione di essere in grado di piegare gli eventi.

Questa guerra entra nel nostro subconscio, scatena sentimenti bestiali, basta leggere alcune pagine Facebook nelle quale c’è chi ringrazia Iddio per una No Fly Zone, affida a ottusi generali la soluzione di un senso di impotenza e stupore di fronte ad un mondo che ha ormai perso di senso. Eppure un senso ce lo stavano regalando quei giovani di Piazza Tahrir, di Tunisi, quei colleghi del blogger libico Mohamed Namous, ucciso da uno “sniper” lealista (così li chiamano) mentre provava a raccontare con coraggio ed ironia l’orrore dela repressione e della guerra. Quei giovani senza kalashnikov, armati solo di Skype e di una microtelecamera. Un nuovo nomos, altro che quello della patria e della forza, quello della dignità e della potenza dolce della libertà. La stessa che sentiamo essere nostra, noi che amiamo la pace, che siamo nonviolenti, e crediamo ancora nell’innocenza della gente.

Francesco Martone

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