sabato 26 marzo 2011

Responsabilità di protezione: perché no?

"The maxims that largely guide international affairs are not graven in stone, and, in fact, have become considerably less harsh over the years as a result of the civilizing effect of popular movements. For that continuing and essential project, R2P can be a valuable tool, much as the Universal Declaration of Human Rights has been." Noam Chomsky, 2009


Per la prima volta nella storia la risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia recepisce il principio di "responsabilità di protezione", sviluppato nel corso degli anni e adottato dall'Assemblea Generale dell'ONU nel 2009. Un percorso che ha generato numerosi dibattiti e interrogativi sul diritto all'ingerenza umanitaria, dopo le stragi in Ruanda ed a Srebrenica. Con il
principio di responsabilità di protezione, l'ONU propone una revisione del concetto di sovranità, passando dal principio di sovranità come controllo delle frontiere a quello di "sovranità come responsabilità", principio che viene meno qualora il governo di quello stato viola la dignità o i diritti dei suoi cittadini. E' un passaggio epocale dal dovere di "non ingerenza" a quello di "non indifferenza", appunto il principio della responsabilità di protezione, invocato anche nel caso della Libia e che proprio in questo frangente viene applicato in maniera tale da creare un pericoloso precedente. Per questo è utile ed importante svolgere una serie di chiarimenti.

Per sgomberare il campo da eventuali equivoci va subito detto che i drammatici eventi in Libia ci richiamano all'obbligo morale e politico di non essere indifferenti, e di stare dalla parte di chi soffre violazioni di diritti umani e lotta per la libertà e la democrazia. Per questo l'obiettivo ed il principio della Responsabilità di protezione (R2P) non dovrebbero essere rifiutati, né con essi la possibilità dell’uso della forza come ultima istanza secondo quanto stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite. Detto questo però la modalità con la quale la R2P viene resa operativa in Libia suscita interrogativi ed alimenta forti perplessità, rispetto alle quali è possibile formulare delle ipotesi di lavoro.

a. COME DECIDERE DI INTERVENIRE?

Chi decide per l'applicazione del principio di responsabilità di protezione e dell’eventuale uso della forza? Se questa prerogativa è lasciato al Consiglio di Sicurezza il rischio è che attraverso veti incrociati si finisca per decidere solo in base a criteri di interesse nazionale dei paesi con diritto di veto (i P5) o si rischia la totale inazione. Allora anzitutto va affermato che questo principio, ed il conseguente diritto di ingerenza umanitaria, dovrebbero essere discussi e decisi nella maniera più democratica possibile, ossia dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dove nessuno ha diritto di veto e vige il principio "una testa un voto". Così si potrebbe evitare il rischio di doppi standard e di un'applicazione strumentale del principio, che è pensato per difendere i deboli e non per promuovere gli interessi dei potenti. In attesa di una riforma in seno al Consiglio di Sicurezza potrà essere possibile per una coalizione di stati, proporre una risoluzione all'Assemblea Generale, prendendo atto della incapacità del Consiglio di Sicurezza di operare rapidamente, e chiedendo l'applicazione del precedente "Uniting for Peace". Secondo questa procedura l'Assemblea Generale può essere investita di questioni relative alla sicurezza ed alla pace, se la situazione sul campo è in rapido deterioramento, vengono meno le opzioni diplomatiche, è necessaria una decisione genuinamente multilaterale.

b. QUANDO INTERVENIRE?

Quando si deve decidere? Sarà necessario proporre che il sistema delle Nazioni Unite si fornisca di una capacità di "early warning" per prevedere lo scoppio di conflitti che possono mettere a rischio la vita di civili, ed attivare immediatamente l'Assemblea Generale, per mettere in campo tutte le misure politiche-diplomatiche- economiche volte a prevenire il conflitto. Qualora queste si rivelassero impraticabili si dovrà decidere per l'invio di una forza di interposizione (anche armata) che però risponda al comando delle Nazioni Unite, e non - come nel caso attuale - ad una coalizione di volenterosi, o della NATO. Uno dei problemi della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia è che non fissa la consequenzialità delle iniziative, e nei fatti dà massima enfasi agli strumenti militari che stanno ormai portando ad una progressiva escalation. Dall’imposizione di una No Fly Zone, ora si sta passando ad attacchi a terra, nei fatti ad una No Drive Zone, ed al sostegno all’offensiva militare di una delle due parti in conflitto, che mira all’abbattimento del regime di Gheddafi. Il rischio che ne deriva è che eventuali ricorsi futuri seppur legittimi alla R2P a tutela dei civili, vengano sempre visti come ancillari rispetto ad obiettivi eterodiretti di cambio di regime, così pregiudicandone efficacia e applicabilità.


c. COME INTERVENIRE?

L'intervento dovrebbe essere intrapreso attraverso il dialogo diplomatico, l'interposizione, assicurando il pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite e sempre tenendo in considerazione i diritti delle popolazioni minacciate che dovrebbero essere coinvolte e consultate rispetto alle modalità di intervento. Resta da decidere secondo i casi se si tratterà di polizia internazionale, o truppe dell'ONU, armate o disarmate, con armi leggere o solo per difesa, il mandato, e le strutture di comando . Inoltre in un secondo tempo quando dalla fase di prevenzione di possibili crimini contro l’umanità si dovrà passare alla transizione verso un sistema democratico legittimo, potrà entrare il campo la Commissione per la Costruzione della Pace (Peacebuilding Commission) delle Nazioni Unite. Spesso si porta a caso esemplare quello del Burundi, nel quale la R2P è stata applicata in tutta la gamma di modalità previste: dalla pressione della società civile per un'iniziativa diplomatica regionale, allo schieramento di una forza regionale di "peacekeeping", ed una volta raggiunta la pace, ed effettuate le elezioni, si è passati al sostegno alla ricostruzione post-conflitto.

Alla luce di quanto esposto, una posizione critica verso l'intervento militare internazionale in Libia non comporta il rifiuto del dovere morale di non essere indifferenti, né la possibilità di uso della forza (nel quadro di processi decisionali democratici, e come “ultima ratio”) ma anzi di preoccuparsi per i diritti dei popoli, sostenendo azioni che non rischino di rappresentare nuove modalità o giustificazioni per fare la guerra.

Per questo è anche importante sforzarsi di costruire nuovi linguaggi che non si limitino a voler leggere questi eventi in Libia ed anche nel resto del Maghreb e Mashrek secondo criteri geopolitici, o teorie della cospirazione varie. Continuare a ritenere questi eventi semplicemente in quanto conseguenza di fattori endogeni, che sia la crisi innescata dalla speculazione sui generi alimentari, o ipotetici grandi piani di controllo imperiale, di strategie imperialiste, o di accesso alle fonti energetiche, o di ridefinizione degli assetti di potere globale, mette in secondo piano il vero protagonismo di popoli che oggi vogliono solo libertà e democrazia. Invece di affermarli in quanto soggetti politici, un tale approccio continua a definirli come vittime da salvare con la nostra solidarietà, negando loro un ruolo centrale nei processi di profonda trasformazione che il mondo arabo sta vivendo. Ora come non mai, invece, quei movimenti per la libertà e la democrazia ci dimostrano che sono le persone ed i popoli che fanno la politica e la storia.

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