lunedì 21 marzo 2011

Una sfida per chi vuole la pace

Politica estera etica, intervento umanitario e eticità della politica: una sfida per chi vuole la pace.

di Francesco Martone (dicembre 2005). I milioni di uomini e donne che hanno marciato contro la guerra in Irak e che continuano a veder svolgersi sotto gli occhi il dramma di un popolo che soffre le conseguenze nefaste dell'imposizione dall'esterno della democrazia, con l'uso della forza, pongono oggi una serie di domande imprescindibil, relative alla ricostruzione di politiche di pace e di rafforzamento del diritto nelle relazioni tra i popoli. ;Queste domande necessitano di risposte chiare, radicali, ed inequivocabili, fondate su un'analisi critica di alcuni concetti e paradigmi di sicurezza che sembrano aver fatto breccia in maniera "bipartizan" nelle menti e nelle percezioni di culture politiche e pratiche diametralmente opposte tra loro. Il concetto di politica estera etica, e quello associato di sicurezza umana, ad esempio, attraversa la storia, a partire dal concetto di guerra giusta, per arrivare all'epoca wilsoniana, fino alla più recente politica estera neolaburista da Clinton a Tony Blair, per finire alla Strategia di Sicurezza Nazionale dell'Amministrazione Bush, o in alcune dichiarazioni rese dal candidato alla guida della coalizione del centrosinistra Romano Prodi circa la "politica estera etica" dell’Unione. Politica estera etica, reinterpretazione del concetto d’interesse nazionale, sicurezza umana, intervento umanitario sono in buona parte facce di una stessa medaglia, quella di un Giano bifronte. Rappresentano cioè il tentativo di ricostruire un’identità ed una ragion d’essere per strutture politiche e militari ormai rese obsolete dalla caduta del Muro di Berlino. Strutture che restano tuttavia di importanza vitale per tenere in vita un apparato industrial-militare europeo considerato come principale volano di sviluppo e crescita economica in una fase storica di grave crisi causata dall’applicazione acritica del modello neoliberista. E per l'Europa la costruzione ex-novo di una "Mission" per legittimare il suo ruolo di attore globale. In questo contesto, sarà necessario provare a fare chiarezza su concetti tanto ambigui quanto rischiosi.Anzitutto occorre porsi la seguente domanda: "difendersi da chi?". I rischi per la sicurezza oggi sono ben diversi da quelli che sussistevano prima della Guerra fredda. Non a caso, il numero di conflitti armati secondo lo Human Security Report (HSR) del 2005 è diminuito dalla fine della Guerra fredda del 40% mentre il numero di grandi conflitti (quelli cioé con oltre 1000 morti ed oltre) è diminuito dell’80%. Le guerre fra stati rappresentano oggi solo il 5% di tutti I conflitti armati e le crisi internazionali sono diminuite di oltre il 70% tra il 1981 ed il 2001.Secondo lo Human Security Report, le iniziative di prevenzione dei conflitti e di "peacekeeping" da parte delle Nazioni Unite - e non solo - hanno indubbiamente prevenuto l’insorgere di alcuni conflitti. Secondo lo HSR due sono oggi le grandi sfide: la prima é quella della povertà e delle diseguaglianze su scala globale, percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale come prioritarie rispetto alla percezione dell’opinione pubblica occidentale. La seconda è quella della risposta ai mutamenti climatici che, se non affrontati adeguatamente, possono creare grandi insicurezze a livello globale. Due problematiche che rappresentano la sintesi del fallimento del paradigma neoliberista e che giustificano ulteriormente l'urgenza di una svolta verso un paradigma economico ed ambientale radicalmente differente da quello dominante. Tra i dati interessanti contenuti nello HSR, vale la pena di riportare quello relativo alle cause della pace. Dalla fine della Guerra fredda, il Consiglio di Sicurezza, ormai libero dalle logiche dei blocchi contrapposti, ha approvato un numero crescente di attività di pacificazione, prevenzione dei conflitti, e costruzione della pace post-conflitto. Allora qual è il vero problema? Se il numero di guerre è diminuito sensibilmente, oggi potrebbe essere possibile springersi fino al punto da poter prospettare un profondo cambiamento di approccio e di mission per la politica estera del nostro paese. In attuazione dell’art. 11 della Costituzione l'Italia potrebbe farsi portatrice di una politica di mediazione e prevenzione dei conflitti, con l’obiettivo di diventare una "puissance tranquile" secondo la definizione data dal sociologo bulgaro Tzvetan Todorov. Una potenza neutrale ma allo stesso tempo direttamente attiva nel perseguimento della pace e del disarmo, a partire dalla revisione radicale delle sue politiche commerciali, ambientali e di sviluppo al fine di aggredire efficacemente le cause della povertà e degli squilibri ambientali globali. Così invece non è, anzi , l'introduzione di concetti come quello della sicurezza umana, della responsabilità di protezione ("responsibility to protect") e di politica estera etica, seppur condivisibili a prima vista , rischiano - nella pratica - di legittimare nuove forme di militarismo politicamente corretto. Nell'analizzare le caratteristiche di questo nuovo paradigma si dovrà necessariamente utilizzare un approccio necessariamente differente da quello della critica all'imperialismo. Il concetto di sicurezza umana rappresenta infatti una sorta di rivoluzione copernicana nell’elaborazione giuridica del principio di sovranità degli Stati, nonché del concetto stesso di frontiera e confine territoriale dell’esercizio della stessa. La ridefinizione di sicurezza ha portato così alla ridefinizione dello stato sovrano, oggi visto come barriera per la sicurezza umana e possibile complice di violazioni dei diritti umani. La politica estera etica ed il quadro di riferimento della sicurezza umana si basano perciò sulla possibilità d'intervento per conto di cittadini di uno stato da parte di un’altro stato o istituzione. Secondo alcuni studiosi del tema, il rischio derivante dall'applicazione del concetto di sicurezza umana, sarebbe quello di creare una situazione non-politica, laddove il cittadino di uno stato per il bene del quale si intende intervenire non è un co-beneficiario dell’azione né tantomeno un partner nell’azione relativa alla sua protezione. Anche la sovranità non deriverebbe più dai cittadini degli stati, ma risulterebbe concessa dalla comunità internazionale per conto di quei cittadini. Di fatto si compie la definitiva dissoluzione del concetto di sovranità già notevolmente diluito dall'affermazione globale del modello neoliberale e del consenso di Washington. Altro problema riguarda la securitizzazione e la conseguente inesistenza di una relazione politica a fondamento della teoria della sicurezza umana. La securitizzazione giustifica azioni al di fuori dei normali limiti della procedura politica, e concepire le questioni socio-economiche e politiche come questioni relative alla sicurezza potrebbe quindi portare ad azioni errate. Lo dimostrano l'esperienza con il Kosovo, la Somalia, Haiti, per non parlare dell'Afghanistan o dell'Irak. Sulla scorta dell'esperienza concreta si può pertanto affermare che l’approccio di sicurezza umana aumenta l’insicurezza e l'instabilità giustificando l'intervento in stati deboli o instabili. A livello internazionale permette invece di fare la guerra su basi arbitrarie creando maggiori timori negli stati più deboli. Da ciò ne consegue un impatto estremamente negativo sui cittadini degli stati nei quali si interviene, laddove il loro potenziale ruolo di soggetti politici attivi viene scavalcato dall'intervento esterno con conseguente maggiore instabilità sociale. Di qui la fine della "politica". Sicurezza umana significa pertanto mettere la protezione degli individui al centro delle politiche di sicurezza, abbandonando la vecchia idea di sicurezza intesa come difesa delle frontiere nazionali. L'interesse nazionale si fonde quindi con una sorta di imperativo etico, giustificato dalla necessità di superare la sovranità statuale per permettere alla comunità internazionale di effettuare nuove modalità di intervento, tra questi l’intervento preventivo (pre-emptive). Come dice il rapporto della Commissione Internazionale sull’Intervento e la Sovranità degli Stati, intitolato "The responsibility to protect", è necessario spostarsi da una "cultura della reazione" ad una cultura della "prevenzione". Che poi il concetto e la pratica di prevenzione abbiano in sé i germi di una nuova forma di interventismo post-imperiale è altra cosa. Anche se qui giova ricordare la differenza non solo semantica del termine inglese "pre-emptive" e "preventative". Una sfumatura che racchiude in sé la differenza sostanziale tra l’approccio alla sicurezza preventiva europeo e quello d’oltreoceano . La nuova strategia di sicurezza europea (ESS), la cosiddetta Dottrina Solana, sembrerebbe contenere nei fatti un'importante svolta poiché a differenza di quanto prospettato inizialmente, rigetta le suggestioni dell'unilateralismo, e della politica di potenza, adottando una politica di prevenzione piuttosto che di guerra preventiva. Il riferimento alla strategia della diplomazia di prevenzione ("preventative") è il frutto di un processo di dibattito serrato, iniziato all'indomani dell'11 settembre. Allora l'Unione Europea discuteva se e come mettere in pratica la dottrina preventiva (quella del "pre-emptive strike") teorizzata dagli ideologi neocon del Project for the New American Century, e poi cristallizzata nella National Security Strategy of the United States, e applicata nella guerra all'Irak. Il risultato finale contenuto nel documento Solana fa riferimento ad un non meglio specificato "preventative engagement", coinvolgimento di prevenzione, dando però enfasi agfli strumenti di cosiddetta "soft security", strumenti politico-diplomatici, ed economici per la prevenzione dei conflitti. Secondo la dottrina Solana, la prima linea di difesa sarà spesso all’estero e la UE dovrà sviluppare una cultura strategica che sostenga interventi rapidi e se necessario forti. A tal riguardo giova ricordare la proposta fatta da un gruppo di lavoro coordinato da Mary Kaldor, che ha prodotto un documento, (il cosiddetto Barcelona report) che suggerisce la creazione di una "Human Security Response Force" civile-militare, ed un nuovo quadro legale che possa governare sia la decisione di intervenire che le modalità operative. Una proposta che altro non fa se non legittimare ulteriormente sviluppi estremamente preoccupanti, relativi alla "fusione" tra sfera civile e militare, nel campo dell'aiuto umanitario, delle operazioni di ricostruzione post-conflitto, nella cooperazione allo sviluppo, come insegnano i casi delle operazioni CIMIC o delle Squadre di Ricostruzione Provinciale (PRT) in Afghanistan, tra cui quella di Herat a guida italiana. Per quanto riguarda la tipologia di minacce dalle quali dovrebbero essere protetti gli individui, c'è chi – i teorici dell’interpretazione restrittiva – tra cui Kofi Annan pensa che si debba trattare della protezione delle comunità ed individui dalla "violenza interna". Per contro, i fautori di un approccio ampio al concetto di sicurezza umana, intendono allargare il concetto ad includere la fame, la malattia, ed I disastri naturali che in sé uccidono più persone delle guerre, genocidi e terrorismo messi insieme. Nella sua formulazione più ampia, pertanto, l’agenda relativa alla sicurezza umana includerebbe anche la insicurezza economica e le minacce alla "dignità umana". Tuttavia, il concetto di sicurezza umana risulta essere troppo vago ed indefinito per poter essere in grado di produrre soluzioni politiche efficaci e compatibili tra loro. Un'ambiguità non casuale e ripresa anche negli ultimi documenti sulla riforma delle Nazioni Unite, quello prodotto al comitato di alti livello commissionato da Kofi Annan, quello a firma dello stesso Annan, ("Towards larger freedom") e la dichiazione finale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del settembre 2005, chiara nel riferirsi al principio di "sicurezza umana" ed estremamente vaga sugli impegni per la prevenzione delle cause delle nove guerre, dallo sradicamento della povertà al disarmo. La sicurezza umana è quindi assurta a quadro di riferimento concettuale e pratico sia a livello di Nazioni Unite che a livello europeo. Tutto ciò rappresenta una forte contraddizione, poiché sicurezza umana ed intervento etico legittimano le azioni di alcuni stati delegittimandone altri, in nome della comunità internazionale. Un uso strumentale ed indiscriminato del diritto d'ingerenza può creare perciò un sistema di "apartheid globale". Ed e' proprio questa concezione che ha indebolito strutturalmente l'impianto di governance globale costruito sul sistema delle Nazioni Unite attraverso pratiche di selettivita', doppi standard, e l' uso strumentale dei diritti umani per giustificare interventi umanitari. Inoltre, l'intervento umanitario affronta i sintomi ma non le cause, rendendo vana ogni possibile iniziativa di prevenzione, che - al contrario - necessita di una reale rielaborazione del concetto stesso di sicurezza. Una politica estera nuova dovrà pertanto mettere al centro della sua azione politica modelli innovativi per la prevenzione diplomatica dei conflitti, al fine di comprendere i circuiti virtuosi che possono essere innescati da politiche commerciali eque, strategie di cooperazione allo sviluppo, e di sostegno ai processi di mediazione e dialogo. Per poter esercitare un ruolo che Etienne Balibar definisce di "mediatore evanescente", l'Italia per prima dovrà scegliere la via del disarmo, della riduzione delle spese militari e della riconversione dell'industria bellica dismettendo la produzione di armamenti e sistemi d'arma disegnati secondo le nuove strategie di difesa e di sicurezza nazionale ed europea a favore di strumenti di lavoro coerenti con la nuova vocazione di prevenzione diplomatica e nonviolenta dei conflitti. Piuttosto che rafforzare la capacità di "proiezione" militare sullo scacchiere globale, legittimata dall'adozione delle priorità della lotta al terrorismo, e dell'intervento umanitario, l'Italia dovrò dotarsi di capacità di prevenzione "politica" dei conflitti attraverso la creazione di corpi di pace, la partecipazione a contingenti di polizia internazionale, e di interposizione pacifica e nonviolenta. La vera "quaestio" relativa alla scelta tra pace e guerra riguarda in ultima analisi una rielaborazione delle pratiche politiche degli stati, e la loro proiezione internazionale. Se e' vero, come dice Jean Baudrillard che la guerra "altro non e' se non la continuazione dell'inesistenza della politica con altri mezzi", e' anche vero che una politica estera di pace dovrà ricostruire le basi della politica. Di conseguenza andrà contrastata un'idea di politica estera di potenza, che vede nello strumento militare uno dei suoi parametri d'azione a vantaggio di un nuovo modello di politica cosmopolitica, basata sui diritti e sul diritto, sulla prevenzione e sulla mediazione. Un impegno certo difficile ma ineludibile per ricostruire le basi di una umana e pacifica convivenza nel rispetto dei diritti dei popoli, e per un nuovo multilateralismo che rifugga le tentazioni autoritarie proprie delle pratiche di guerra preventiva e di lotta al terrorismo che rischiano di diventare le caratteristiche pregnanti della politica estera del XXI secolo.

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