domenica 29 maggio 2011

Medio Oriente, guerra, crescita e rigore fiscale: le ricette del G8

Primavera araba, crisi economico-finanziarie, rilancio della cooperazione internazionale, tecnologie dell’informazione, crescita verde, guerra in Libia, sicurezza nucleare dopo il disastro di Fukushima, cambiamenti climatici e biodiversità, questi alcuni dei temi che hanno caratterizzato gli incontri appena conclusi del vertice dei G8 in Francia. Quest’anno il Presidente francese Nicholas Sarkozy si trova a presiedere i due consessi internazionali che raggruppano a modulazione variabile le potenze vecchie e nuove del Pianeta - gli otto paesi industrializzati nel G8 e nel quadro del G20 anche le potenze emergenti , quali India, Sudafrica, Brasile, Cina. L’allargamento del G8 al G20 è ormai un dato di fatto, al punto da aver eroso progressivamente la rilevanza del primo a vantaggio della maggior rappresentatività del secondo. Certo è che se al G8 i governi non hanno faticato molto a trovare un accordo su questioni globali d’interesse ed approccio comune, lo stesso non sarà per il G20 dove la presenza dei paesi BRICS si farà sentire con forza. Basti pensare ai vari dossier ancora aperti nei quali i paesi emergenti potranno mostrare i muscoli, dalla riforma del sistema finanziario, al rilancio del Round di Doha al WTO, al negoziato sul clima. Per non dimenticare il braccio di ferro sulla successione di Dominique Strauss Kahn al vertice del Fondo Monetario Internazionale. Una disputa che, seppur chiusa poi dalla Cina con il sostegno alla candidatura Lagarde, lascia un suo strascico polemico con una dura lettera scritta dai direttori esecutivi dei quattro paesi BRICS in merito alle procedure di selezione ed alla storica consuetudine di designare un europeo al vertice dell’istituzione. L’impressione che si ricava da questo ultimo vertice è quella di un disperato tentativo dei G8 di riprendere una propria rilevanza e leadership globale. Risuonano ancora le parole determinate di Barack Obama pronunciate qualche giorno prima a Westminster quando, sotto lo sguardo di David Cameron, ha rilanciato il ruolo centrale di leadership delle potenze occidentali nei confronti dei paesi emergenti, rinsaldando l’asse anglo-statunitense. È di qualche mese fa fa la pubblicazione di un cablo wikileaks nel quale si evidenziava la forte preoccupazione dell’amministrazione Obama nell’offensiva diplomatica di Brasile, India, Cina e Sudafrica (il nuovo gruppo BASIC nato ai margini del negoziato sul clima) e l’invito a rafforzare l’alleanza con l’Unione Europea. Insomma, se a Deauville i G8 hanno cercato di “imporre la linea” sui temi globali e regionali, al G20 la partita sarà tutta da giocare. Con la Francia che almeno sulle questioni finanziarie parte avvantaggiata vista l’insistenza sulla riforma della “governance” finanziaria globale, la proposta di tassazione sulle transazioni finanziarie, e la prevenzione delle speculazioni sulle risorse naturali ed il cibo. Certo è che se si guarda nel merito delle decisioni prese a Deauville, altro non emerge se non la vecchia ricetta neoliberista e securitaria, che da anni questi vertici partoriscono, e che negli anni dimostra la sua inadeguatezza e nocività. La crescita economica resta saldamente il principale parametro di riferimento del benessere e della dignità delle persone. Basta leggere le dichiarazioni finali del G8, quella intitolata “Impegno rinnovato per la libertà e la democrazia” e quella sulla Primavera araba. Tra le righe – retorica a parte - risaltano alcune parole-chiave che danno il senso complessivo del messaggio politico inviato al mondo. “Sosterremo la crescita verde come garanzia per la costruzione di posti di lavoro e la prevenzione dei mutamenti climatici”. Un cambio di passo notevole in termini concettuali rispetto ai termini non certo sinonimi di “economia verde” o “greening of the economy”, tema portante del vertice Rio+20 che si terrà nel 2012 in Brasile che già si preannuncia come un possibile “flop” diplomatico. Per tenere insieme Europa, Stati Uniti, Giappone e Russia, il testo omette qualsiasi riferimento al fattore “K”, ovvero l’impegno per il secondo periodo di attuazione del Protocollo di Kyoto, e nulla viene detto sull’urgenza di uno sganciamento definitivo dalla dipendenza dai combustibili fossili. Queste sono le vere poste in gioco nel negoziato che avrà sbocco a dicembre alla Conferenza delle Parti di Durban. Sul nucleare, preso atto del disastro di Fukushima, non c’era certo da aspettarsi grandi passi indietro, tant’è che nella dichiarazione finale si fa riferimento esclusivamente a questioni di sicurezza nucleare e non certo ad una messa in discussione dell’opzione nucleare. Una posizione scontata vista la politica nuclearista dei padroni di casa . Andiamo alle politiche macroeconomiche: “l’Europa continuerà a perseguire rigorose politiche di consolidamento fiscale e riforme strutturali per incentivare la crescita”, un linguaggio che ignora le gravissime ricadute sociali della stretta di vite di Bruxelles sui conti e le politiche macroeconomiche dei paesi membri. Ancora, “ per facilitare la ripresa, “il G8 riafferma il proprio impegno alla liberalizzazione degli scambi commerciali” ed al rilancio del Round di Doha . Un processo quello all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ormai agonizzante da anni, vista la mancanza di volontà politica dei paesi industrializzati di riconoscere eguali diritti ai paesi in via di sviluppo, in particolare nel settore agricolo, e l’ostinatezza ad inserire “dossier” critici quali quello sui servizi e gli investimenti e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Insomma, libero commercio, rigore, e crescita sono ancora i pilastri portanti dell’economia globale, in un quadro rigido di “governance” che non permette passi indietro o vie alternative. Sull’aiuto allo sviluppo, si riaffermano gli impegni a sostegno dei grandi fondi e partnership partoriti in questi anni, da quella sull’AID, TBC e Malaria (lanciata a Genova, e verso la quale l’Italia ha accumulato un notevole ritardo nell’esborso dei propri contributi al punto da essere di recente esclusa dal Fondo), all’iniziativa sui vaccini, quella sullo sradicamento della polio. Si nota un aumento delle risorse finanziarie messe a disposizione per l’APS a livello globale – da 82.55 a 89.25 miliardi di dollari (altro dato critico per l’Italia vista la pressoché totale scomparsa dell’aiuto pubblico allo sviluppo con il governo Berlusconi) , ben poco se confrontato all’ammontare totale dei fondi di risparmio sovrani (sovereign wealth funds) di alcuni paesi ricchi di petrolio, pari a 3 trilioni di dollari! Si sottolineano comunque i ritardi nell’attuazione degli impegni, mentre il riferimento rituale al sostegno agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio pare un alibi per eludere impegni certi e verificabili di spesa futura. Ad esempio per l’iniziativa de L’Aquila sulla Sicurezza Alimentare risultano sborsati solo il 22% dei fondi promessi. Due capitoli su Africa e sviluppo fondato sulle grandi infrastrutture troveranno invece spazio nell’agenda del G20 di novembre. E passiamo al dossier Pace e Sicurezza, con la Libia in primo piano. “Gheddafi se ne deve andare” senza mezzi termini il G8 chiude ogni porta al possibile negoziato per un esilio – opzione attualmente perseguita dal presidente sudafricano Zuma –appoggiando poi con forza l’iniziativa della Corte Penale Internazionale che ha emesso un mandato di cattura internazionale per il dittatore libico. Senza alcun posto dove andare, il colonnello continuerà a combattere. Il dossier Palestina risente del recente discorso di Obama sul Medio Oriente, nel quale si rilancia il negoziato bilaterale e si pone un freno alla campagna internazionale di riconoscimento dello stato di Palestina presso le Nazioni Unite. Un’ opzione rilanciata nei giorni scorsi dalla Lega Araba e che resta al vaglio di alcuni paesi membri dell’Unione Europea. Si riconoscono inoltre i supposti passi in avanti del governo Karzai nella pacificazione dell’Afghanistan ed i progressi nel processo di rappacificazione e riconciliazione. In tutta risposta i Talebani hanno distrutto all’indomani del G8 una base militare uccidendo - tra gli altri - tre militari tedeschi e ferendo gravemente un generale della NATO. Un attentato che richiama all’attenzione le contraddizioni delle cosiddette operazioni di peacekeeping, ai quali il G8 dedica l’ultimo trafiletto - il paragrafo 93 - auspicando un maggior coordinamento con le Nazioni Unite, e dimenticando che dovrebbero essere invece le Nazioni Unite a gestirle. Non a caso il precedente della Libia e del ruolo attivo della NATO pesa come un macigno. L’Africa resta in secondo piano a prescindere da dichiarazioni di rito, vista l’ assoluta rilevanza data al Medio Oriente ed in particolare al Maghreb. La dichiarazione del G8 sulla Primavera Araba fa il pari con la “Partnership per la prosperità condivisa e la democrazia” lanciata dalla Commissione Europea a Marzo, con il discorso di Obama sul Medio Oriente, la nuova politica di vicinato della UE lanciata il 24 maggio scorso. Insomma, la parola d’ordine è “more for more”. Più soldi in cambio di maggiori riforme democratiche, e dell’apertura dei mercati del lavoro e dei servizi. Un fondo di 40 miliardi di dollari che andrebbe anzitutto ad Egitto e Tunisia e poi via via a quei paesi che decidano di aderire alla “Partnership di Deauville” lanciata dal G8, nel quadro rigido delle riforme macroeconomiche preconfezionate dal Fondo Monetario Internazionale per facilitare la penetrazione delle imprese transnazionali. Insomma, in un frangente nel quale restano alti i rischi d’involuzione sia in Egitto che in Tunisia, spingere l’acceleratore sulle riforme politiche e sulle libere elezioni rischia di tagliar fuori quei nuovi soggetti politici e sociali cui si deve la Primavera araba, e perpetuare il predominio delle vecchie elite politiche ed economiche amiche. Chi gestirà questi fondi, le vecchie strutture di potere o quelle nuove democraticamente elette? Ed ancora, sul tema del debito estero di Egitto e Tunisia, come voltare pagina facendo giustizia nei confronti delle responsabilità dei governi autoritari nell’accumulo di tale debito che in quanto odioso ed illegittimo non dovrebbe essere pagato dal popolo egiziano e quello tunisino? L’approccio di Europa e G8 verso il Maghreb conferma che non ci potrà essere un nuovo corso nelle relazioni tra paesi e popoli del Mediterraneo senza una profonda disamina delle responsabilità storiche dei governi delle imprese, delle organizzazioni internazionali. Aspettarsi questo da chi fino a ieri sosteneva quei governi autoritari non è possibile né auspicabile. Proporre questo come punto di lavoro per i movimenti sociali che lavoreranno ora al forum sociale mondiale 2013 nel Maghreb/Mashrek, è una possibilità, che Sinistra, Ecologia e Libertà porterà assieme ad altre proposte e attività a fine luglio a Genova quando i movimenti nazionali ed internazionali si riuniranno per fare il punto a dieci anni dai tragici fatti del G8 2001.

mercoledì 4 maggio 2011

Le rivolte arabe, la democrazia, l'Europa

(editoriale per dossier di Mosaico di Pace, Maggio 2011)


Da Piazza Tahrir, alle strade di Tunisi, dalla Siria allo Yemen, alla Libia ed il Marocco milioni di persone, giovani, anziani, donne, disoccupati e lavoratori da mesi si mobilitano per chiedere un cambiamento radicale del sistema politico che per anni ha frustrato ogni loro aspirazione alla libertà ed alla dignità. Parlare di Maghreb oggi, con un dossier scritto quasi interamente al femminile è una sfida ed allo stesso tempo esercizio complesso giacché in questo periodo liminale che intercorre tra la fine dei regimi, e la costruzione di altre ipotesi politiche può succedere di tutto. Si possono accelerare le spinte alla radicalizzazione del conflitto, si può rischiare il ritorno alla normalità, o consolidare le istanze ed i soggetti che oggi chiedono democrazia. Una democrazia sostanziale, che si riappropria degli strumenti della politica della modernità, (il sistema elettorale, i processi costituenti) , ma li trasforma e li rielabora in una visione nuova, non più etero diretta, e nella quale la dignità è il pilastro centrale. Certamente ci sono molte differenze da paese a paese, dovute alla storia ed alla conformazione dei gruppi di potere che per anni hanno inibito ogni prospettiva di cambiamento. Eppoi la presenza dell’Islam (da quello moderato e quello salafita) che ha rappresentato uno dei pretesti centrali delle potenze occidentali per puntellare quei regimi che qualcuno ha definito vittime di un “jetlag storico” o meglio ancora di un “disordine temporale postcoloniale” ancorati com’erano ad una visione assoluta del potere, ad un autoritarismo che ormai nulla ha a che vedere con le aspirazioni legittime di quei popoli. Oltre ai governi autoritari la primavera araba pare essersi portata via anche qualsiasi velleità integralista, il grande piano di Al Qaeda di penetrare il tessuto sociale di quei paesi. Si è detto che la chiave di volta di questo sommovimento va trovata in una complessità di fattori, ed indubbiamente così è. Oggi le politiche di riduzione della spesa pubblica si accompagnano ad un’ ulteriore contrazione del potere di acquisto delle classi popolari, dovuto in primis all’aumento dei prezzi dei generi alimentari, conseguenza delle speculazioni finanziarie sui prodotti agricoli. Aggiungiamo a questo il potere tremendo del web. la sua capacità di permettere la comunicazione oltre la censura ed il controllo di polizia, la possibilità di costruire un sentire collettivo, pratiche e culture politiche tra popoli e generazioni accomunati oggi dalla stessa disperazione e voglia di riappropriarsi di persona del proprio futuro. Le rivolte di oggi non sono solo di carattere economico, ma soprattutto politico. Sono l’esito di un processo di “ebollizione” che per anni covava sotto traccia e che forse oggi ha trovato un suo sbocco naturale nelle crepe aperte dalla nuova amministrazione Obama e dal fallimento delle politiche euro mediterranee dell’Unione Europea. Il discorso di Obama al Cairo, l’invito ai popoli arabi a costruire la democrazia secondo le proprie modalità, l’apertura verso l’Islam, e l’abbandono delle velleità di George Bush di esportare la democrazia nel Grande Medio Oriente hanno segnato indubbiamente un passaggio chiave per comprendere gli sviluppi nell’area. La crisi finanziaria ed economica ha poi portato alla luce l’ ambiguità dell’Unione Europea, di una politica, dal processo di Barcellona all’Unione del Mediterraneo, che sulla carta parla di democrazia e diritti umani ed in realtà cela obiettivi ben differenti di blindatura delle proprie frontiere ai flussi migratori, liberalizzazione degli scambi commerciali, accesso alle risorse naturali ed al mercato del lavoro a basso costo. Un mix micidiale che non ha certo contribuito a costruire le premesse per società più libere e giuste. Anzi. Oggi - in questo periodo liminale tra conservazione e cambiamento, tra stabilità e trasformazione - si gioca il futuro del Mediterraneo e dell’Europa. Con i paesi della sponda Nord che continuano a usare gli strumenti della realpolitik per tentare disperatamente di riconfermare il proprio ruolo centrale nei destini della regione. E non esitano ad usare la forza delle armi, con il pretesto dell’ingerenza umanitaria in Libia per tentare di riaffermare il proprio protagonismo, in un’internazionalizzazione di una guerra civile che può rappresentare un grave rischio per quei processi di trasformazione. Gli eventi del Maghreb assumono pertanto una grande importanza. Ci interrogano sul significato della democrazia, ma anche sul tema della dignità, sulla costruzione partecipata di un nuovo spazio pubblico, su come promuovere i diritti dell’uomo in un mondo ormai post-occidentale. Più in generale su come provare a costruire assieme a quei popoli - con capacità di ascolto e la doverosa umiltà - un’ipotesi di pace e democrazia transnazionale, euro-mediterranea, che dia senso ad una visione cosmopolita che rifugge le tentazioni dell’uso della forza e sia saldamente ancorata al diritto ed ai diritti universali.

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mercoledì 30 marzo 2011

Libia, "the devil is in the detail"

Credo che non si possa articolare un giudizio politico sull’intervento militare internazionale in Libia limitandosi ad opporsi alla guerra, né risolvere la complessità delle vicende che stanno attraversando il Maghreb ed il Mashrek con valutazioni e posizioni che rischiano di mettere in secondo piano la profonda spinta innovatrice di quei popoli, utilizzando categorie proprie dell’anti-imperialismo, o del pacifismo ideologico. Credo invece che le vicende del Maghreb e del Mashrek segnino un importante cambio di passo, e con esso la crisi della realpolitik, giacché dimostrano che sono i popoli che fanno la storia a prescindere dal gioco dei grandi interessi contrapposti. Indubbiamente la specificità della situazione libica, nella quale ci troviamo di fronte a moltitudini che hanno preso le armi per liberarsi da quel regime, e le risposte molto discutibili della comunità internazionale oggi alimentano una discussione all’interno ed all’esterno del movimento pacifista, che si polarizza sempre più e rende difficile la ricerca di un punto di sintesi e convergenza. Da chi rigetta la guerra senza se e senza ma, a chi invece sostiene l’intervento internazionale a fianco dei “nuovi resistenti al fascismo verde di Gheddafi” a chi vede in Gheddafi uno dei residui di un passato anticoloniale ed antiimperialista. Fatto sta che nella discussione sulla Libia oggi o sei bollato come “anima bella” o come guerrafondaio. Cosa ci sia nel mezzo di queste disquisizioni puramente nostrane non è ancora dato sapere. Certo è che così scompaiono dalla discussione quei civili per i quali era suppostamente stato approvato l'intervento militare, presi ora tra i fuochi incrociati di una guerra civile ormai internazionalizzata e tuttora vittime di una spietata repressione da parte delle forze "lealiste". Invece se si parla del popolo libico si inizia a mettere in discussione la natura degli insorgenti, che siano giovani democratici, riciclati del vecchio potere, elite progressiste, o cellule salafite vicine ad Al Qaeda, come se questo poi risolvesse il vero problema che è alla base della vicenda libica, e sulla quale sembra nessuno voglia focalizzare l’attenzione. Quello che dovrebbe interrogare davvero il mondo pacifista oggi riguarda un elemento di grande novità insito nella risoluzione 1917 e che marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite. Come intitola un commento lo Spiegel online, le Nazioni Unite hanno abbandonato il principio della pace per quello dei diritti umani. Forse questa affermazione è un po’ forzata ma certamente è la prima volta che viene nei fatti messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P). Questo principio, sviluppato in seguito alle stragi di Srebrenica e Ruanda, delinea un approccio che mette al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati. Insomma il fondamento base di una politica internazionale ispirata a principi etici e morali. Su questo punto credo si debba far chiarezza. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a violazioni ripetute dei diritti umani, né di fronte a crimini contro l’umanità, e credo che in linea di principio si possa condividere il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” ed anche la possibilità che la comunità internazionale possa intervenire qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini. Il problema vero è se da un principio condivisibile si passa poi a pratiche o modalità di applicazione che rischiano di creare pericolosi precedenti. E’ questo il nocciolo del problema nel caso della Libia. Il principio della R2P può funzionare solo in un quadro nel quale se ne prevenga l’uso in maniera selettiva, e nel quale la sua applicazione non sia fondata sugli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Purtroppo questo è quello che sta avvenendo in Libia. Le modalità con le quali si è giunti alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza evidenziano come fin dall’inizio si volesse dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Inoltre, il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza, che è noto essere organismo nel quale 5 superpotenze fanno la differenza, rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. Ecco il vero paradosso della vicenda. Nel quadro di processi epocali di trasformazione sociale che evidenziano i limiti e le ipocrisie della realpolitik, quegli stessi attori politici che fino a poco tempo prima ne erano i principali fautori, oggi pensano di poter risolvere tale contraddizione schierandosi in difesa di popolazioni civili minacciate. Allora è chiaro che la prima vittima di questa vicenda rischia di essere proprio la “responsibility to protect” visto che viene utilizzata nei fatti come pretesto per sostenere un cambio di regime eterodiretto. In futuro sarebbe estremamente difficile in casi ancor più evidenti e gravi invocare tale principio visto che secondo il precedente che viene stabilito nel caso libico, questo implicherebbe comunque come ultima istanza l’uso della forza militare e degli strumenti della guerra per rimuovere un regime, piuttosto che difendere le popolazioni civili . Per non parlare poi del precedente che vede una coalizione dei volenterosi guidata dalla Francia e dall’Inghilterra prendere l’iniziativa militare per poi passare in un secondo tempo alla NATO. Insomma tutta la questione viene risolta all’interno di un quadro di “realpolitik” , in strutture puramente militari che rispondono a logiche di sicurezza improntata sull’uso delle armi, magari le più sofisticate possibili, e sulla sconfitta del nemico. Mary Kaldor in un suo recente scritto ha chiaramente evidenziato il rischio di una guerra umanitaria con tutte le conseguenze che questo comporterebbe sulle rivolte democratiche in altri paesi, sulla situazione dei civili in Libia e sulla tenuta del diritto all’ingerenza umanitaria. Che fare allora? Quale il ruolo del movimento pacifista? Certamente in prima istanza sarà necessario attivarsi per un cessate il fuoco immediato e la sospensione di operazioni militari che ormai stanno degenerando in sostegno attivo ad una delle parti in causa in un conflitto interno, per aprire un processo di mediazione internazionale, e nel caso considerare la possibilità di una forza ONU di interposizione composta da paesi che non hanno partecipato all’operazione Odyssey Dawn. E poi più in generale confrontarsi con la novità che questo intervento militare in Libia propone, e con le sfide politiche e intellettuali che rappresenta. Andrà quindi riaperta una discussione sul tema della riforma delle Nazioni Unite che con questa vicenda rischiano di uscirne ulteriormente indebolite se non trasformate nella loro ragion di esistere. Andrà formulato un pacchetto di ipotesi di riforma che prevedano ad esempio un ruolo centrale dell’Assemblea Generale nel democratizzare i processi decisionali sul ricorso alla R2P, la creazione di strumenti di interposizione ed intervento a difesa dei civili che non siano lasciati in mano della NATO, ed anche l’adozione di politiche di prevenzione dei conflitti che possano permettere alla comunità internazionale di attivarsi in anticipo con misure politiche ed economiche per prevenire possibili escalation che mettano a rischio la vita di civili. Oltre questo resta il nostro impegno a sostenere politiche di accoglienza nei confronti di coloro che fuggono dalla guerra e di assistenza umanitaria, oltre che lasciare aperto un canale di dialogo, discussione e scambio reciproco tra le due sponde del Mediterraneo, nella prospettiva di costruire - come evocato a suo tempo da Alexander Langer - un nuovo progetto di fratellanza euromediterranea.

sabato 26 marzo 2011

Responsabilità di protezione: perché no?

"The maxims that largely guide international affairs are not graven in stone, and, in fact, have become considerably less harsh over the years as a result of the civilizing effect of popular movements. For that continuing and essential project, R2P can be a valuable tool, much as the Universal Declaration of Human Rights has been." Noam Chomsky, 2009


Per la prima volta nella storia la risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia recepisce il principio di "responsabilità di protezione", sviluppato nel corso degli anni e adottato dall'Assemblea Generale dell'ONU nel 2009. Un percorso che ha generato numerosi dibattiti e interrogativi sul diritto all'ingerenza umanitaria, dopo le stragi in Ruanda ed a Srebrenica. Con il
principio di responsabilità di protezione, l'ONU propone una revisione del concetto di sovranità, passando dal principio di sovranità come controllo delle frontiere a quello di "sovranità come responsabilità", principio che viene meno qualora il governo di quello stato viola la dignità o i diritti dei suoi cittadini. E' un passaggio epocale dal dovere di "non ingerenza" a quello di "non indifferenza", appunto il principio della responsabilità di protezione, invocato anche nel caso della Libia e che proprio in questo frangente viene applicato in maniera tale da creare un pericoloso precedente. Per questo è utile ed importante svolgere una serie di chiarimenti.

Per sgomberare il campo da eventuali equivoci va subito detto che i drammatici eventi in Libia ci richiamano all'obbligo morale e politico di non essere indifferenti, e di stare dalla parte di chi soffre violazioni di diritti umani e lotta per la libertà e la democrazia. Per questo l'obiettivo ed il principio della Responsabilità di protezione (R2P) non dovrebbero essere rifiutati, né con essi la possibilità dell’uso della forza come ultima istanza secondo quanto stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite. Detto questo però la modalità con la quale la R2P viene resa operativa in Libia suscita interrogativi ed alimenta forti perplessità, rispetto alle quali è possibile formulare delle ipotesi di lavoro.

a. COME DECIDERE DI INTERVENIRE?

Chi decide per l'applicazione del principio di responsabilità di protezione e dell’eventuale uso della forza? Se questa prerogativa è lasciato al Consiglio di Sicurezza il rischio è che attraverso veti incrociati si finisca per decidere solo in base a criteri di interesse nazionale dei paesi con diritto di veto (i P5) o si rischia la totale inazione. Allora anzitutto va affermato che questo principio, ed il conseguente diritto di ingerenza umanitaria, dovrebbero essere discussi e decisi nella maniera più democratica possibile, ossia dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dove nessuno ha diritto di veto e vige il principio "una testa un voto". Così si potrebbe evitare il rischio di doppi standard e di un'applicazione strumentale del principio, che è pensato per difendere i deboli e non per promuovere gli interessi dei potenti. In attesa di una riforma in seno al Consiglio di Sicurezza potrà essere possibile per una coalizione di stati, proporre una risoluzione all'Assemblea Generale, prendendo atto della incapacità del Consiglio di Sicurezza di operare rapidamente, e chiedendo l'applicazione del precedente "Uniting for Peace". Secondo questa procedura l'Assemblea Generale può essere investita di questioni relative alla sicurezza ed alla pace, se la situazione sul campo è in rapido deterioramento, vengono meno le opzioni diplomatiche, è necessaria una decisione genuinamente multilaterale.

b. QUANDO INTERVENIRE?

Quando si deve decidere? Sarà necessario proporre che il sistema delle Nazioni Unite si fornisca di una capacità di "early warning" per prevedere lo scoppio di conflitti che possono mettere a rischio la vita di civili, ed attivare immediatamente l'Assemblea Generale, per mettere in campo tutte le misure politiche-diplomatiche- economiche volte a prevenire il conflitto. Qualora queste si rivelassero impraticabili si dovrà decidere per l'invio di una forza di interposizione (anche armata) che però risponda al comando delle Nazioni Unite, e non - come nel caso attuale - ad una coalizione di volenterosi, o della NATO. Uno dei problemi della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia è che non fissa la consequenzialità delle iniziative, e nei fatti dà massima enfasi agli strumenti militari che stanno ormai portando ad una progressiva escalation. Dall’imposizione di una No Fly Zone, ora si sta passando ad attacchi a terra, nei fatti ad una No Drive Zone, ed al sostegno all’offensiva militare di una delle due parti in conflitto, che mira all’abbattimento del regime di Gheddafi. Il rischio che ne deriva è che eventuali ricorsi futuri seppur legittimi alla R2P a tutela dei civili, vengano sempre visti come ancillari rispetto ad obiettivi eterodiretti di cambio di regime, così pregiudicandone efficacia e applicabilità.


c. COME INTERVENIRE?

L'intervento dovrebbe essere intrapreso attraverso il dialogo diplomatico, l'interposizione, assicurando il pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite e sempre tenendo in considerazione i diritti delle popolazioni minacciate che dovrebbero essere coinvolte e consultate rispetto alle modalità di intervento. Resta da decidere secondo i casi se si tratterà di polizia internazionale, o truppe dell'ONU, armate o disarmate, con armi leggere o solo per difesa, il mandato, e le strutture di comando . Inoltre in un secondo tempo quando dalla fase di prevenzione di possibili crimini contro l’umanità si dovrà passare alla transizione verso un sistema democratico legittimo, potrà entrare il campo la Commissione per la Costruzione della Pace (Peacebuilding Commission) delle Nazioni Unite. Spesso si porta a caso esemplare quello del Burundi, nel quale la R2P è stata applicata in tutta la gamma di modalità previste: dalla pressione della società civile per un'iniziativa diplomatica regionale, allo schieramento di una forza regionale di "peacekeeping", ed una volta raggiunta la pace, ed effettuate le elezioni, si è passati al sostegno alla ricostruzione post-conflitto.

Alla luce di quanto esposto, una posizione critica verso l'intervento militare internazionale in Libia non comporta il rifiuto del dovere morale di non essere indifferenti, né la possibilità di uso della forza (nel quadro di processi decisionali democratici, e come “ultima ratio”) ma anzi di preoccuparsi per i diritti dei popoli, sostenendo azioni che non rischino di rappresentare nuove modalità o giustificazioni per fare la guerra.

Per questo è anche importante sforzarsi di costruire nuovi linguaggi che non si limitino a voler leggere questi eventi in Libia ed anche nel resto del Maghreb e Mashrek secondo criteri geopolitici, o teorie della cospirazione varie. Continuare a ritenere questi eventi semplicemente in quanto conseguenza di fattori endogeni, che sia la crisi innescata dalla speculazione sui generi alimentari, o ipotetici grandi piani di controllo imperiale, di strategie imperialiste, o di accesso alle fonti energetiche, o di ridefinizione degli assetti di potere globale, mette in secondo piano il vero protagonismo di popoli che oggi vogliono solo libertà e democrazia. Invece di affermarli in quanto soggetti politici, un tale approccio continua a definirli come vittime da salvare con la nostra solidarietà, negando loro un ruolo centrale nei processi di profonda trasformazione che il mondo arabo sta vivendo. Ora come non mai, invece, quei movimenti per la libertà e la democrazia ci dimostrano che sono le persone ed i popoli che fanno la politica e la storia.