venerdì 10 luglio 2009

Aiuto! Quali aiuti allo sviluppo?

Dal vertice di Gleneagles di qualche anno fa ad oggi, i paesi del G8
avrebbero dovuto tener fede all’impegno di destinare quote crescenti
del loro prodotto interno lordo alla lotta alla povertà e dalla cooperazione
internazionale. E le ristrettezze di bilancio causate dalla crisi economica
globale non possono certamente essere addotte a pretesto per venir meno
ad un impegno di giustizia e di restituzione del debito ecologico e sociale
accumulato dai paesi industrializzati nei confronti del mondo di maggioranza.
Tuttavia il paese che oggi ospita e presiede il G8 è progressivamente
precipitato tra gli ultimi in termini di impegni per la lotta alla povertà:
negli ultimi due anni del governo Berlusconi la cooperazione è arrivata ai
minimi storici.
Se ciò non bastasse, questo G8 potrebbe segnare l’inizio di una nuova era
nei principi e nelle strategie per la promozione dei beni pubblici globali, a partire
dall’aiuto e dalla cooperazione allo sviluppo. A fronte dei ripetuti
appelli del mondo nongovernativo ad aumentare le quote di
finanziamento alla cooperazione e dalla lotta alla povertà, i G8 non
si sono fatti sfuggire l’occasione per proporre una nuova visione
dell’aiuto allo sviluppo, in termini di “sistema paese”
("whole of country" nel gergo degli sherpa), un termine
bipartizan molto di moda anche negli ambienti politici nostrani.
Basti ricordare le vicende del dibattito abortito sulla riforma della
cooperazione italiana allo sviluppo la scorsa legislatura, quando
venne avanzata da più parti l’ipotesi di una Fondazione
Pubblico-Privata per la cooperazione del “sistema Italia”. Questa
dilatazione del concetto di aiuto, fino ad includere anche – come
propone l’OCSE - le missioni militari all’estero (cosa che ad esempio
viene già fatta in Inghilterra) permetterebbe quindi di affiancare
all’aiuto pubblico allo sviluppo una quota crescente del settore
privato, delle imprese, delle fondazioni internazionali. Il dibattito
in corso a livello G8 sull’aiuto, è pertanto speculare alla
discussione “nazionale” sull’aiuto allo sviluppo ormai ridotta a mera
“espressione geografica” nel bilancio dello Stato. Il G8 del 2009
potrebbe quindi passare alla storia come il “trend-setter”, quello
delle svolte “politiche” e “culturali” a costo finanziario zero. Lo
stesso vale per la riforma della governance globale. Altro che riforma
ed allargamento del G8, il vero rischio è che il G8, seppur allargato
occasionalmente ad altri Paesi ad economia emergente, riesca a
scalzare le Nazioni Unite nel gestire l’ormai irrevocabile processo di
revisione della struttura di governo dell’economia e della finanza
globale degli Accordi di Bretton Woods. Se poi si aggiunge a questo
la questione dei cambiamenti climatici, con la risolutezza del governo
italiano ad usare il Protocollo di Kyoto contro sé stesso, allora si
potrà concludere che il vertice del 2009 potrebbe diventare il primo
vertice di sapore ed ispirazione “neo-con”, proprio quando a
Washington l'avvento di Obama ha relegato i neocon tra i rottami della
storia.

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