martedì 28 luglio 2009

morire per Kabul?

Mio commento su Afghanistan postato oggi sul sito di SeL

28 luglio 2009 alle 20:16

Avendo avuto a che fare - assieme a molti e molte compagne che oggi
come me sostengono il progetto di Sinistra e Libertà - con la
questione afgana per ben sette anni in Parlamento ed essendo stato uno
dei promotori dell’appello per il ritiro delle truppe pubblicato anche
su questo sito vorrei condividere alcune riflessioni. La prima è che
non si può lasciare il popolo afghano in preda della NATO, delle bombe
intelligenti, dei Mangusta, né dei signori della guerra nè ancor di
più dei Talebani. A suo tempo tentammo una via altra, che passava
attraverso tre pilastri: a rielaborazione del concetto di sicurezza.
Quando si parla di sicurezza umana si intende la protezione dei civili
non operazioni offensive. Allora si proponeva che l’Italia si
sganciasse dalla partecipazione all’operazione Enduring Freedom e
sostenesse la riconfigurazione della la presenza internazionale con un
contingente di polizia internazionale sotto mandato e comando ONU.
2: sostenere processi di mediazione e costruzione della pace
attraverso il sostegno alla società civile afgana, processi di verità
e giustizia sui crimini commessi da tutte le parti in conflitto, la
convocazione di un tavolo di trattativa anche con gli insurgenti. A
questo negoziato macroregionale avrebbero partecipato anche i governi
degli stati confinanti l’Afghanistan Iran e Pakistan in primis.
3. inversione delle proporzioni tra sostegno finanziario allo
strumento militare e ricostruzione, sostegno a programmi di
autoproduzione alimentare, microimpresa, microcredito, sostituzione
progressiva delle colture da oppio con produzioni atte ad assicurare
sovranità alimentare e accesso a mercati locali. Investimento in
scuole, e salute, ed in infrastrutture locali. Sganciamento delle
attività militari da quelle di ricostruzione come nel caso delle
Provincial Reconstruction Teams, vedi quella di Herat. Sulla base di
questa proposta abbiamo per due anni ingaggiato un confronto
costruttivo con il governo Prodi, per provare ad ottenere una
riduzione progressiva dell’impegno italiano in termini militari ( o
per lo meno prevenire una escalation in termini di uomini e mezzi) e
un rafforzamento della partecipazione in termini civili e di
mediazione. Le regole d’ingaggio e la gestione dei caveat venivano
costantemente monitorati a livello parlamentare, mentre si cercava di
articolare un dialogo con quei pezzi di movimento pacifista che come
noi non volevano cadere nella trappola “ritiro delle truppe da una
aguerra imperialista” o “a Kabul fino alla morte per l’Occidente e la
NATO”. Abbiamo provato a metterci nei panni delle necessità effettive
del popolo afgano al di la di ogni retorica. Non è stato facile, né
per le nostre profonde convinzioni pacifiste né per lo scontro che
questo ha creato con compagni e compagne di viaggio sia in Parlaento
che all’esterno, nei movimenti. Poi quando era chiaro che la fase
politica del centrosinistra stava volgendo al termine abbiamo votato
contro la missione per non dare una cambiale in bianco ad un governo
successivo, che oggi con le dichiarazioni dei suoi ministri dimostra
un volto guerrafondaio e militarista che cozza contro quelle ipotesi
di exit strategy da più parti invocate anche all’interno
dell’amministrazione Obama. Ora le condizioni per una strategia di
riconfigurazione del ruolo italiano in Afghanistan non esistono più,
né quella che dovrebbe essere l’opposizione accenna ad un minimo
interesse a rielaborare proposte di uscita dall’opzione militare. Ed
allora a noi non resta che rilanciare l’appello per ritirare le
truppe, fermare l’escalation militare e chiedere che l’Italia si
incarichi di sostenere una discussione per una profonda
riconfigurazione della presenza internazionale in quello scacchiere.
Farlo mentre fischiano le bombe o i proiettili dei Mangusta (tanto
invocati dal responsabile Difesa del PD) mi pare non solo impossibile
ma anche non accettabile dal punto di vista politico ed etico.

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